Breve estate di guerra tra gli orti di Sassari

L'otto settembre 1943 nei ricordi di mio padre 

I rifugi erano solo una curiosità, poi i bombardieri angloamericani furono minaccia costante. Ma nelle campagne la gente sentiva soltanto gli echi lontani delle esplosioni su Alghero.


di Eliseo Sirigu 


Mia madre faceva le faccende di casa, cucinava, aiutava anche mio padre tenendo sempre in testa il suo cappellino color viola, i guanti e la borsetta a portata di mano. Non appena dal vicino municipio si facevano udire gli ululati della sirena scappavamo giù per le scale e via a passo di marcia e qualche volta anche di corsa verso il rifugio. Nelle strade, poche persone che correvano in cerca di un riparo. Nei primi tempi da che suonava l'allarme raggiungevamo il rifugio che stavano ancora scavando in quella che poi avrebbero chiamato piazza demolizioni (l'attuale piazza Mazzotti) ma che per i sassaresi che vi abitavano era conosciuta come li casi ifasciaddi. Negli anni immediatamente percedenti la guerra il mussoliniano piccone demolitore si era abbattuto anche su Sassari e in pieno centro storico i progettisti avevano immaginato una serie di edifici di stile littorio con tanto di statua equestre. Ma l'incalzare della guerra aveva fatto rimandare le operazioni di demolizione. A volte andavamo a ripararci anche nel rifugio sotto piazza Rosario,
dove negli anni Cinquanta fu costruito il primo “grattacielo”.
Quel rifugio lo ricordo bene, lo andavamo a visitare di notte, mio padre, mia madre e io, prima che venisse il coprifuoco. Era una delle mete delle nostre passeggiate notturne nelle sere d'estate, nel primo periodo della guerra, quando di incursioni aeree neppure si parlava, almeno qui in Sardegna. Poi, quando a partire dalla primavera del 1943 anche i nostri cieli cominciarono a popolarsi di “Liberator”, “Lancaster” e poi ancora di “fortezze volanti”, con le loro pance cariche di ordigni micidiali, le passeggiate notturne finirono di colpo. In quel 1943 arrivarono l'oscuramento e il coprifuoco e a poco a poco, prima ancora che le autorità lo consigliassero quasi imponendolo, i sassaresi lasciarono la città, per sfollare nelle vicine campagne.



B24 Liberator
La paura di rimanere bloccati, sepolti vivi in un rifugio durante un bombardamento, consigliò mio padre di raggiungere la campagna di un suo amico, l'orefice Margelli, nella vallata dell'Eba Ciara, dove era stata scavata una galleria nella roccia. E noi tre di corsa da via Santa Caterina per piazza Tola, il Carmelo, il Mercato civico, viale San Francesco e il viottolo che porta alla vallata. In testa mio padre, dietro io e mia madre col suo immancabile cappellino, la borsa e i guanti. 
Una volta, nella fretta di lasciare la casa, mia madre dimenticò sul fornello non so che cosa e al nostro ritorno trovammo tutto carbonizzato. Se gli aerei americani e inglesi avessero fatto un'incursione sulla città, come poi accadde, che cosa sarebbe successo a noi che camminavamo per le strade?
Venne il momento dello sfollamento. Le scuole avevano chiuso i battenti in anticipo proprio a causa delle incursioni sempre più frequenti. Prima a Rodda Cuadda, presso un cugino di mio padre, Gavino Pinna Carta, che lì possedeva una lavanderia e una piccola cartiera. Alla bell'e meglio furono preparate due stanze in un edificio che doveva servire per asciugatoio. Ma mio padre e mia madre restavano spesso in città e venivano alla sera, quando possibile. La scelta di Rodda Cuadda non durò a lungo e così tornammo a casa.
Una mattina, eravamo alle soglie dell'estate, suonò l'allarme. Via di corsa, come al solito, verso il rifugio dei Margelli. Arrivammo all'Eba Ciara col fiato in gola quando già si udiva il rombo sordo degli aerei che poco dopo passarono sulle nostre teste con un rumore infernale. L'allarme non durò a lungo e dopo neppure un'ora eravamo nuovamente sulla strada di casa. Sulle facciate delle case dei mutilati, in piazza colonnello Serra, qualcuno fece notare i segni lasciati dalle raffiche di mitragliatrice sparate dagli aerei. 
La situazione diventava sempre più pericolosa. Incursioni su Alghero, bombe su Porto Torres. Sassari, fortunatamente, era stata fino a qual momento risparmiata. Ma la paura era grande. Nel mese di maggio mi mandarono in campagna a Logulentu assieme a mia nonna materna e  una mia zia. Eravamo ospiti di nostri parenti, i Pinna, che in quella zona possedevano un frutteto. Non lontano da dove oggi sorge il villaggio San Camillo, andarono a stare i miei cugini Merella, coi quali ho diviso gli anni puù belli della mia fanciullezza. Per noi ragazzi tra i sette e i dieci anni fu quello un periodo bellissimo. Per noi la guerra non esisteva. Anzi, era un'inattesa occasione per inventare giochi nuovi.
Una notte d'estate fui svegliato di soprassalto. Mi avvolsero in un lenzuolo e mi portarono al piano di sotto, dove erano radunati tutti gli altri abitanti della casa, tre o quattro famiglie con numerosi bambini. Poi, guidati dagli uomini -ricordo Costantino Pinna- raggiungemmo una grotta che si trovava appena sotto la cresta di una grande roccia. Non appena fummo al riparo l'orizzonte si illuminò di mille colori , dal rosso cupo all'arancione, al giallo e al bianco. Sembravano fuochi d'artificio. Contemporaneamente giungevano fino a noi sordi boati mentre il cielo veniva solcato dai traccianti.


Quella sera fu bombardata Alghero. Numerose case furono distrutte. Ci furono anche dei morti. Noi, all'interno della grotta, stavamo in silenzio ad ascoltare il brontolio che veniva da lontano e guardavamo i lampi multicolore che attraversavano il cielo. Le donne pregavano a mezza voce, scorrendo nervosamente i grani del rosario. 
Almeno una volta alla settimana si tornava in città a piedi. Erano circa sei chilometri. Non c'erano mezzi di trasporto, se non carri trainati da cavalli. Arrivati all'altezza della stradina del Latte Dolce ci si doveva fermare a un posto di blocco tedesco. Proprio sotto l'edicola con l'immagine della Madonna c'erano i soldati armati di mitragliatrice piazzata dietro una postazione fatta con i sacchi di sabbia. Non che in quel punto vi fosse un vero e proprio controllo di documenti, ma ricordo che più di una volta i tedeschi fermarono i contadini che portavano sacchi e bisacce sulle spalle o sui carri. Soltanto durante uno di questi rientri periodici in città venimmo a sapere che per due volte nel mese di maggio gli aerei americani avevano preso di mira la stazione ferroviaria. Prima era stata colpita con spezzoni la zona circostante il sottopassaggio di Santa Maria, poi fu bombardata un'ala della stessa stazione. Un ferroviere (a distanza di anni seppi che si chiamava Giovanni Toccu) perse la vita a causa delle ferite riportate nella prima incursione.
L'estate del 1943 incalzava. Una mattina -mi trovavo in città dopo una settimana trascorsa in campagna- mio padre mi condusse al mercato. Mancava la carne, ma frutta e verdura se ne trovavano in quantità perchè la produzione dei nostri orti e delle nostre campagne era abbondante. Arrivato all'incrocio tra via Rosello e via La Marmora sentimmo levarsi delle grida. “ La guerra è finita, la guerra è finita!” Uomini, donne correvano in tutte le direzioni, come impazziti. Io non riuscivo a capire cosa era successo. Mio padre si avvicinò ad un suo conoscente, mi pare un certo Rais, che proprio lì vicino gestiva un negozio di frutta e verdura, e gli chiese di spiegargli il perchè di tanta agitazione. Era l'8 settembre. Di sera, aspettando la cena, la radio ufficializzò la notizia dell'armistizio. Grande commozione in casa, la guerra, almeno per noi era finita. Poiché era già tardi non uscimmo, anche perchè erano rimaste in vigore le disposizioni sul coprifuoco. Ma l'indomani la città era in festa. Per la strada la gente si salutava con grandi sorrisi, amici e conoscenti si abbracciavano, qualcuno piangeva e rideva. Il rifugio dell'Eba Ciara era ormai un ricordo lontano, anche se erano trascorsi un paio di mesi.

(pubblicato su 'La Nuova Sardegna' dell'8 settembre 1984)

Commenti

  1. complimenti e' una lettura che scivola lentamente e ti sorprende per la sua semplicita' narrativa

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